Bambini al ristorante

Bambini al ristorante: quando il diritto alla tranquillità viene ignorato.

In un’epoca in cui tutto è tollerato in nome della libertà individuale, ci si dimentica spesso che la libertà di uno finisce dove inizia quella dell’altro. È diventato quasi un tabù lamentarsi dei bambini che urlano nei ristoranti. Se osi farlo, sei immediatamente etichettato come insensibile o peggio.

Ma parliamoci chiaro: un ristorante (se stellato, osteria o trattoria non importa) non è un parco giochi. È un luogo dove le persone vanno per godersi un pasto, conversare e rilassarsi. Quando un bambino inizia a urlare o correre tra i tavoli, l’esperienza di tutti viene rovinata. E la responsabilità non è del bambino, ma dei genitori che non intervengono. Ed invece è ormai “normale” andare a pranzo o a cena tra urla, pianti, corse tra i tavoli. Mamme e papà incollati al telefono, totalmente assenti, convinti che “sono bambini, lasciali fare”.

Bambini al ristorante: anche no, grazie.

No, grazie. Non li lasciamo fare. Un ristorante non è un asilo. Non è uno sfogo domenicale per genitori esausti. È un luogo dove altre persone – che magari hanno pagato caro per una serata speciale – cercano silenzio, gusto, atmosfera. Oppure risate con gli amici, qualche sfottò e qualche brindisi allegro. Tutte cose che non stanno insieme alla parola “bambini”. 

Non si tratta di discriminazione, ma di rispetto reciproco. È tempo che i ristoratori abbiano il coraggio di stabilire regole chiare per garantire un ambiente piacevole per tutti. E se questo significa limitare l’accesso ai bambini in certi contesti, così sia.

“Se tuo figlio urla al ristorante, il problema non è lui. Sei tu.”

I ristoratori italiani, a differenza di altri Paesi, non possono vietare l’ingresso ai bambini nemmeno in modo selettivo, nemmeno per garantire un’esperienza più curata a chi sceglie il loro locale per un momento speciale. È una contraddizione tutta nostra: predichiamo la qualità, ma obblighiamo chi lavora nell’accoglienza a “tollerare tutto”, anche a discapito degli altri clienti.

In un Paese serio, i ristoratori avrebbero il diritto di decidere chi accogliere. Non per cattiveria. Ma per coerenza con il proprio progetto, per rispetto verso chi sceglie il loro locale.

Invece qui si ha paura perfino a dire che non tutti i contesti sono adatti a un bambino di 3 anni.

Perché “non si può vietare l’ingresso ai bambini”.

Perché “è discriminazione”.

No. È buon senso.

Non si tratta di escludere i bambini, ma di riconoscere che non tutti i luoghi sono adatti a tutte le età. Così come non porterei un cane in una galleria d’arte affollata o non metterei una rock band a suonare in una biblioteca, allo stesso modo credo sia legittimo voler cenare in un contesto adulto.

Oppure continueremo a trattare ogni richiesta di tranquillità come un’offesa ai sacri valori della famiglia?

Perché diciamolo chiaramente: avere figli non è una licenza per invadere lo spazio degli altri. Eppure, ogni volta che si solleva il tema dell’opportunità di regolamentare la presenza dei bambini in certi contesti – come i ristoranti– si grida subito allo scandalo, alla discriminazione, al moralismo.

Alcuni potrebbero dire che i figli hanno il diritto di essere ovunque. Ma il diritto alla tranquillità degli altri clienti dove finisce? È ora di smettere di giustificare tutto in nome della genitorialità. Se non sei in grado di controllare tuo figlio in pubblico, allora è meglio per tutti restare a casa.

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