Lo Stile: una mostra e un progetto site related, pensato appositamente per Ca’ Pesaro e contemporaneamente un riferimento all’opera di Piet Mondrian e al Neoplasticismo. Una mostra di potenza visiva, apparentemente provocatoria ma in realtà rivelatrice della centralità nell’arte della forma del linguaggio.
A Ca’ Pesaro, Venezia, la Galleria Internazionale d’Arte Moderna
Sede della Galleria Internazionale d’Arte Moderna, Ca’ Pesaro sorge nella seconda metà del XVII secolo, per volontà della nobile e ricchissima famiglia Pesaro, su progetto del massimo architetto del barocco veneziano, Baldassarre Longhena, cui si devono anche la Chiesa della Salute e Ca’ Rezzonico.

I lavori iniziano nel 1659 e la prestigiosa facciata sul Canal Grande raggiunge il secondo piano già nel 1679, ma, alla morte di Longhena nel 1682, il palazzo è ancora incompiuto.
Il completamento, affidato a Gian Antonio Gaspari, terminerà entro il 1710, rispettando sostanzialmente il progetto originario. Nel realizzare Ca’ Pesaro, capolavoro dell’architettura civile barocca veneziana, Longhena si ispira alla classicità sansoviniana, elaborando soluzioni e linguaggi capaci di esprimere una nuova sontuosa armonia.
Una grandiosa facciata sul Canal Grande, dalla composizione complessa, possente eppure equilibrata, un vastissimo androne, ben disposto lungo l’asse di tutto l’edificio, spazioso e rigoroso nella penombra che si contrappone alla chiara luminosità del cortile, articolato attorno alla monumentale vera da pozzo, cinto da una terrazza e percorso da un porticato a bugne, scandito da lesene doriche e piani superiori a finestre architravate.

Dopo i Pesaro, il palazzo passa ai Gradenigo, poi ai Padri armeni Mechitaristi, che lo utilizzano come collegio. Acquistato infine dalla famiglia Bevilacqua, diviene proprietà della duchessa Felicita Bevilacqua La Masa. È lei a destinare il palazzo all’arte moderna, lasciandolo a questo scopo alla città. Le collezioni permanenti della Galleria Internazionale d’Arte Moderna, sempre rinnovate ed arricchite di nuovi spunti critici e di insolite prospettive, sono in costante relazione con le mostre temporanee ospitate nelle sale del secondo piano.
Fra i capolavori esposti il celebre Il pensatore di Auguste Rodin e Giuditta II (Salomé) di Gustav Klimt insieme ai lavori di artisti come Medardo Rosso, Giacomo Balla, Adolfo Wildt, Arturo Martini, Gino Rossi, Giorgio Morandi e Felice Casorati. Dopo l’importante arrivo della Collezione Chiara e Francesco Carraro nel 2017, nel febbraio 2019 la collezione è stata arricchita dal deposito di un eccezionale nucleo di trentadue opere di alcuni tra i più importanti autori italiani del ‘900: capolavori di Massimo Campigli, Carlo Carrà,

Giacomo Manzù, Ottone Rosai, Scipione e Mario Sironi provenienti da note e importanti collezioni di arte italiana. E’ all’interno di questo contesto che si inserisce la mostra di Chiara Dynys, una tra le più importanti artiste italiane contemporanee, il cui lavoro si è sempre contraddistinto per una particolare attenzione al dialogo con lo spazio storico, sia nella sua dimensione architettonica che in quella discorsiva.
Visitabile sino al 15 settembre 2024 nelle Sale Dom Pérignon di Ca’ Pesaro, la mostra promossa dalla Fondazione Musei Civici di Venezia a cura di Chiara Squarcina, Alessandro Castiglioni, Elisabetta Barisoni, sarà accompagnata da un catalogo edito da Nomos Edizioni, con testi dei curatori e un contributo critico di Angelo Crespi.
Nel rispetto di una poetica che ha sempre rifiutato qualsiasi definizione stilistica,

Dynys reinterpreta la sintesi linguistica del Neoplasticismo fondato da Piet Mondrian (il movimento De Stijl), attraverso una serie di nuovi ambienti immersivi, in cui luce e materia ridisegnano il racconto del reale. L’artista stessa, in merito, racconta:
«Il riferimento a Mondrian vuole rendere esplicita la mia affermazione che la forma del linguaggio, anche quando lo stile è rinnegato, come nel mio lavoro, è centrale. L’installazione inedita che dà il titolo alla mostra è infatti un’opera ambigua, che intenzionalmente riprende le composizioni dell’artista teosofo ma nel contempo le rinnega, perché è realizzata in pietra e metallo, cioè in materie presenti e resistenti, quel che Mondrian rifuggiva più di ogni cosa.

Contrapposti a questa, un gruppo di libri colorati di metacrilato della serie Tutto, – posegue Dynys – fornisce ulteriori spunti sulla mia particolare e contraddittoria idea di stile, mentre la seconda grande sala è interamente occupata dall’installazione Gate of Heaven, dove lo scheletro luminoso di una grande porta sembra derivare dalle curve, altrettanto luminose, che si diffondono sul pavimento secondo l’andamento delle onde gravitazionali dell’universo».
La visione ravvicinata nel tempo e nello spazio di questi tre lavori, parla di uno “stile” che diventa tale se il linguaggio disparato con cui lo si esprime riesce a diventare forma.
Come scrive Chiara Dynys: «Più che un omaggio a Piet Mondrian, la mostra è la mia affermazione che la forma del linguaggio, anche quando lo stile è rinnegato, come nel mio lavoro, è centrale».
elena volpato