Rifletto sull’uso degli emoji che pure io, da sessantenne, faccio giornalmente con l’invio di whatsapp, e-mail e messaggi in genere. Una faccina sorridente, un pollice alzato o due occhi rivolti al cielo, quando ben contestualizzati, sostituiscono una frase che necessiterebbe di impegno ortografico, sintattico e soprattutto tempo.
Gli antichi egizi, utilizzavano 24 segni che combinati in modo diverso, davano origine a ben 7mila significati. Le regole delle combinazioni erano assai complesse. Sin dal IV secolo A.C., questo metodo di comunicazione è stato la prima forma scritta di trasposizione di comunicazione verbale. In gergo, è un rapporto di tipo pittografico: grafemi ovvero segni corrispondenti ad una parola.
Proprio come gli emoji, i grafemi eran divisi in 3 parti. Inizialmente, venivano usati in forma molto semplice ed erano facilmente comprensibili.
Il segno determinativo indicava una cosa ed era di immediata comprensione: un uccello, un fiore, il sole oppure o un’azione: per esempio, un occhio come concetto relativo al vedere.
In seguito, per permettere la costruzione di frasi più complesse, vennero affiancati da segni alfabetici e sillabici. La prima delle tre principali parti era composta da fonogrammi che servivano a suggerire la pronuncia della parola, la seconda era costituita da un pittogramma che rappresentava un oggetto e la terza era di tipo determinativo, ovvero: la circostanza di cui si stava parlando.
Via via, dal geroglifico si è passati alle parole e alla costruzione di frasi che grazie all’intelletto umano, sono state utilizzate per comunicare altissimi concetti imprimendo in forma indelebile la storia dell’umanità e tramandandola dettagliatamente ai posteri. Grazie all’evoluzione della scrittura, è stato possibile partire da dati certi per raggiungere elevatissimi traguardi in tutti i campi.
I geroglifici egiziani vennero tradotti per la prima volta da Jean-François Champollion nel 1824, basandosi sul paragone indotto dal ritrovamento della Stele di Rosetta, pietra su cui furono rinvenute iscrizione in tre lingue, geroglifici, demotico e greco antico, che dettero il via alla decifrazione dell’antica lingua egizia.
Le parole italiane sono circa 2milioni (Lorenzetti 2002, cap. 3.2); quelle inglesi, da un recente studio di Google, sono più di un milione. Le lingue del mondo sono 2mila 700 e sono tutte in continua evoluzione.
Gli emoji, creati tra il 1998 e il 1999 dal giapponese Shigetaka Kurita, sono circa 2.800 e non c’è tastiera di computer o cellulare che non le abbia.
Proprio mentre sto scrivendo, ricevo la risposta ad un saluto e ad un “come stai” inviato ad un amico ed ecco la risposta: “zzz, faccina che dorme, manina con pollice alzato, faccina che strizza l’occhio, mani giunte in preghiera”. Traduco istintivamente in “Sto dormendo, o quasi; tutto ok; ti ringrazio” La faccina che strizza l’occhio addolcisce la risposta “determinando un piccolo segno di simpatia ed una cordiale accettazione del messaggio”. Il mio cervello ha utilizzato 20 parole per decifrare pragmaticamente una sequenza di 5 emoji.
Le sensazioni, però, sono lasciate alla libera interpretazione. Gli ideogrammi, a differenza delle parole, non ti guidano verso l’interpretazione che chi scrive vuole comunicare. Una parola in più o in meno e una punteggiatura cambiano lo stato d’animo di chi legge: ti addolciscono o ti inaspriscono. L’emoji è statico, inespressivo e ci indirizza verso una comunicazione ristretta che non lascia spazio all’elaborazione filosofica dei concetti. In fondo, la comunicazione e il cervello delle persone sta cambiando. I pensieri sono sempre più ridotti, veloci. Ridurre le parole ci permette di nasconderci e di lasciare aperte delle vie d’uscita rispetto a dettagliate frasi che, se ben composte, non lasciano spazio alla libera interpretazione dettata dal momentaneo stato d’animo di chi legge.
Ritornando alla risposta del mio amico che potrebbe essere paragonata ad una risposta monosillabica e ammesso che il mio stato d’animo, in quel momento, fosse stato diverso, avrei potuto chiedermi se l’emoji della faccina che dorme non volesse indentificare un “mi stai disturbando: sto dormendo!”; che il pollice alzato significasse sbrigativamente “per quel che ti è concesso sapere, va bene”; che la faccina che strizza l’occhio fosse solo di “circostanza” ed impersonale. Poi, mi rendo conto che io e il mio interlocutore siamo di nazionalità e lingua diverse e che gli emoji sono, seppur ridotta ai minimi termini, una forma di comunicazione scritta internazionale e interlinguistica.
Pur essendo legato alla comunicazione tradizionale, quella dei miei tempi, mi rendo conto che tutto sta cambiando e mi adeguo. Cerco di non cadere in complicate analisi di quanto sta succedendo ed accetto anche questa innovazione come un dato di fatto. Mi chiedo, però, a cosa penseranno, semmai succederà, quelli che tra qualche secolo troveranno un cellulare sepolto assieme ad un geroglifico di un museo egizio. Mi chiedo come sarà possibile interpretare gli esatti pensieri di questa e delle prossime generazioni. Forse, i massimi pensieri li abbiamo già esauriti. I grandi filosofi hanno già rielaborato e scritto tutto. I sentimenti e le sensazioni degli esseri umani, nel ripetersi della storia, sono già state scritte da chi ha saputo scriverle.
Stati di amore, benessere, gioia, ansie e dolori sono già ben descritti in testi classici e contemporanei e forse li prendiamo come situazioni “normali” delle quali non sorprenderci a tal punto da metterci ad analizzarli introspettivamente provando la necessità di comunicare le nostre sensazioni e i nostri pensieri agli altri, quasi fossimo consapevoli che tutti proviamo le stesse cose ritenendo che non sia necessario descrivere qualcosa che già tutti conoscono. Le parole ci aprono ai pensieri; la descrizione di un sentimento ci porta a confrontarci scoprendo che non siamo soli nel nostro pensiero, nel nostro modo di vedere le cose.
Tutto cambia e sicuramente sono troppo conservatore ostinandomi ad utilizzare una comunicazione scritta classica ma mi chiedo come si sarebbe potuta imprimere, con i geroglifici o con gli emoji, una delle più belle frasi di Paul Valery: “Le vent se lève, il faut tenter de vivre” (si alza il vento, bisogna tentare di vivere).