Fino alla metà degli anni 70, il mio approccio con la “cucina” è stato basato sui piatti regionali veneti o, per essere più precisi, veneziani che in molti casi, pur chiamati allo stesso modo, si differenziano per consistenza e metodi di cottura da quelli del resto della Regione. Penso ai “risi e bisi” che a Venezia venivano preparati più sodi e cremosi rispetto a quelli più morbidi serviti nell’entroterra, forse più vicini ad una minestra di riso.
A Venezia, il risotto, in un certo senso, osservava i canoni di Pellegrino Artusi per il quale doveva essere sodo e presentarsi, come nel caso di quello allo zafferano, “come una palla dorata”. I concetti di risotto all’onda, di perfezionamento della mantecatura e delle diverse tipologie di riso, sono arrivati più tardi, quasi in epoca moderna.
Dopo il mio approccio con la cucina a livello amatoriale, si è sviluppata in me la passione che più tardi sarebbe diventata parte della mia vita professionale. Erano gli anni 80 e nelle cucine dove ho lavorato e nei percorsi di formazione, anche internazionali, che ho seguito, la gastronomia si classificava semplicemente in regionale, nazionale e internazionale.
Alla cucina internazionale si arrivava dopo aver acquisito ottime competenze sulla cucina Italiana. Il mio primo passo verso l’internazionale è stato un timido avvicinamento alla cucina francese. A quei tempi, parlare di cucina internazionale era ben diverso da ciò che oggi è ben radicato nell’immaginario collettivo. Attualmente, se pensiamo alla cucina internazionale pensiamo alla cucina fusion, al sushi, ai taco e al pad thai. Oggi, quando mangiamo una Paella o una Wiener Schnitzel, non pensiamo che siano piatti internazionali e ci dimentichiamo della loro storia, delle tradizioni e della cultura dei territori da dove vengono.
Nel corso degli anni, abbiamo assistito ad innumerevoli cambiamenti anche in ambito culinario; le esigenze di noi consumatori sono aumentate: ci siamo raffinati, siamo curiosi e cerchiamo novità e sperimentazione, ci siamo globalizzati e, di conseguenza, le classificazioni gastronomiche si sono moltiplicate.
Per farci un’idea dell’evoluzione delle attuali offerte gastronomiche, basta guardare le insegne dei ristoranti delle città: le cucine sono suddivise a seconda del territorio di provenienza, delle mode, dello stile salutare e delle religioni. Parlando di provenienza, troviamo ristoranti cheoffrono cucina locale, etnica e fusion; in linea con le mode, possiamo scegliere tra cucina molecolare, a sifone, creativa; le religioni suggeriscono piatti kosher e halal; la sempre maggiore attenzione agli aspetti salutari, sta facendo fiorire offerte vegane, vegetariane, eubiotiche. Questi sono solo alcuni esempi.
Anch’io mi sono adeguato e dopo quella francese del Cordon Bleu ho studiato la cucina indiana, quella asiatica e quella giapponese; dopo la nouvelle di Gualtiero Marchesi, ho approfondito la molecolare di Ferran Adrià e seguito con interesse le tecniche a sifone di uno dei miei cuochi preferiti, Danilo Angè che pur partecipando a importanti programmi televisivi, è rimasto un cuoco italiano “moderatamente creativo” che ha portato il suo stile di cucina in Cile, in Russia, in Estonia e Finlandia e che si rammarica di non esser riuscito a fare un’esperienza in Francia per conoscere la vera cucina francese e imparare sul campo le basi della vecchia cucina. Non è mai troppo tardi, Danilo! Oppure, sì?
Nel senso: dove e da chi si potrebbe andare, al giorno d’oggi, per imparare la vera e pura cucina francese, quella del mercato di Paul Bocuse? Altresì, mi chiedo lasciando da parte la Francia: dove e da chi, in Italia, potrebbe andare un giovane appassionato cuoco per imparare le basi della nostra cucina?
Tanto è cambiato. Ma qual è il motivo principale? E’ l’offerta che si adegua alla domanda o, viceversa, i consumatori seguono le tendenze dell’offerta?
Penso che un tempo, chi faceva questo mestiere fosse più concentrato nella manualità e nella pura esecuzione; questo richiedeva uno spirito ed una vocazione “operaia”. Al giorno d’oggi, fortunatamente, è aumentata la scolarizzazione e anche negli Istituti Professionali, gli insegnamenti non si limitano alla manualità. Alle materie operative, vengono associati percorsi di studio su marketing, storia del cibo e, talvolta, psicologia; sono stati introdotti percorsi di stage di scambio interculturale e viene dato maggiore risalto a creatività ed inventiva. Per quanto riguarda i consumatori sono, anzi, siamo anche noi cambiati. Il ristorante, al giorno d’oggi, è alla portata di tutti e ci andiamo tutti molto spesso. Di conseguenza, cerchiamo le novità, vogliamo provare cose che ci sorprendano. Abbiamo saltato a piè pari la tradizione, dimenticandoci dei cibi “classici”.
Nel passato frequentare i ristoranti era un lusso e, in genere, chi li frequentava godeva di buona cultura; nel menù c’era l’entrecôte e tutti sapevano cosa fosse. Nei menù contemporanei, invece, vengono utilizzati nomi composti, talvolta intere frasi per dare il nome al piatto che lo chef ha inventato per incuriosirci, per sorprenderci e per descrivere le “innovazioni” che dovrebbe racchiudere la sua creazione.
I cambiamenti sono fondamentali per il progresso dell’umanità ma forse è meglio soffermarci a riflettere e non cadere nello spasmodico desiderio di voler innovare a tutti i costi dimenticandoci del nostro patrimonio culturale e facendoci inghiottire dal caos contemporaneo. E, questo, non vale solo per la gastronomia…