La Festa del Redentore ha radici antiche. Era il 1575 quando una terribile pestilenza diffuse terrore e vittime a Venezia. Il governo della Repubblica Marinara si attivò e approntò tutte le misure sanitarie all’epoca possibili per combattere il morbo e per agevolare la vita dei veneziani. Gli scritti delle memorie tramandate da generazione a generazione, raccontano di paura e lutti, cataste di persone senza vita ovunque e case trasformate in sepolcri. Poi tutto passò: la peste fu sconfitta e piano, piano si tornò tornare alla normalità. La fede e la speranza sono insite nella natura umana: le religioni professano la prima, infusa da anni di dominanti culture, cavalcando la seconda, istinto naturale.
Il Religioso Senato Veneziano stabilì, quindi, che si sarebbe eretto un tempio dedicato al Supremo Redentore, affinché facesse cessare il flagello aggiungendo il solenne obbligo di annuale pellegrinaggio dei veneziani con relative evidenti ricadute economiche e d’immagine. Il progetto venne affidato all’archistar dell’epoca, Andrea Palladio che progettò il tempio, esempio di intramontabile architettura e da secoli, attrazione religiosa e turistica della città.
La Chiesa ha saputo sempre fare dell’ottimo marketing e le Celebrazioni a sfondo religioso lo confermano.
Ma dove finisce l’aspetto mistico religioso e dove comincia il folklore? I romani davano il vino al popolo per stordirlo e sviarlo da assilli e problemi e per farli, di contro, festeggiare.
Far festa è importante quanto lo è lavorare e mangiare; lo sapevano bene i romani, i greci, gli ebrei e perfino Gesù, il quale trasformò 600 litri d’acqua in vino durante un'”arida” festa nuziale, a Cana, per comunicare che sotto la sua guida, iniziava il tempo della gioia messianica.
Della fede e della preghiera, molto spesso, quando non ce n’è bisogno, ci si dimentica.
E, anche il mistico pellegrinaggio del Redentore, si è trasformato, sin dal 1800, in una festa celebrativa. Una “Festa del Redentore” quasi profana, una sagra cittadina dove i veneziani si incontrano sulle barche e sulle rive illuminate da lanterne colorate, dividendo allegria e cibo coronati dagli spettacolari fuochi d’artificio sul bacino di San Marco e, ad esser sincero, mi piace di più così.
La “Festa del Redentore” era la festa dei veneziani e fino agli anni ’90 del 1900 ad essi era riservata. Non c’era il turismo di massa. Non c’erano le centinaia di alberghi da riempire. Non c’era la necessità di pubblicizzare ricorrenze cittadine vendendole come attrazioni turistiche. Ora, purtroppo sì e il Redentore, la Sensa e l’autunnale Madonna della Salute sono entrati nei calendari turistici assieme alla Biennale e del Carnevale. Insomma si è unito il Sacro al profano, perfetta esemplificazione del etto popolare.
Ma torniamo alla Festa del Redentore: in questo 2021, la notte tra il 17 e 18 luglio, la festa si celebrerà in una situazione molto simile a quella del 1576. La pandemia sta ancora diffondendo paure e limitazioni e Venezia non sarà, probabilmente, invasa da torme di turisti che anelano di presenziare alla celebrazione nota per i suoi effetti pirotecnici.
Sarà un Redentore molto “intimo”, simile a quelli che si celebravano fino a trent’anni fa: il Redentore dei veneziani, l’ideale continuazione di quella Festa nata per ringraziare dello scampato pericolo, ed io voglio immaginarmelo così.
Tavole imbandite lungo le rive e sulle barche dove si festeggerà con damigiane di vino e i cibi di rito: pasta e fagioli, sarde in saor, bigoli in salsa, anatra ripiena e gigantesche angurie tenute al fresco in grossi catini d’acqua. Grandi e piccini che guardando i fuochi d’artificio e si meravigliano vociando sommessi “ohhh”.
Applausi finali e allegri rientri a casa attraverso canali e calli non affollate durante i quali ci si accorda per trascorrere la domenica successiva sulle spiagge del Lido: con l’immancabile divisione dei compiti e l’ultima frase prima di lasciarsi….
Ragazzi, “l’anguria la porto io “!