“Lascerò quella pista, i rulli di tamburo. Ho scelta la strada, anche e è meno sicuro. Saluterò luci e gente, sorrisi forzati; cadute fasulle da cartoni animati e applausi convinti a una vita irreale, perché dentro al Circo ogni uomo è un animale. Mi sento mancare quando si apre il sipario, quando la tromba fischia l’ingresso e il mio calvario”.

Lo stop (non voglio credere né scrivere la parola “fine”) al Cirque du Soleil mi riporta in mente queste parole rubate a una canzone che avevo sentito da un artista di strada, che raccontava di un clown che voleva “librarsi, essere un uomo volante” e invece era obbligato a far ridere.
La parabola del clown è quella di Guy Lalibertè, di cui si è già scritto tutto e il suo contrario come di ogni genio. Per cui non mi unirò al coro dei suoi detrattori perché non mi frega nulla di spiare dal buco della serratura la sua camera da letto o la sua villa al mare; non mi unirò agli sciacalli che con gusto anche in questi giorni hanno cominciato a banchettare sulle carni smembrate e hanno ripercorso senza motivo la sua storia di uomo forse piccolo umanamente, certamente geniale e inarrivabile come showmaker. La cattiveria e la piccineria di chi lo attacca oggi godendo della (speriamo) momentanea difficoltà della sua prima creatura non tiene conto del dolore dei fans e del disastro che il fallimento del Cirque provocherebbe.

Per ora, intanto, di sicuro c’è che questo lockdown tra i mille altri disastri ha provocato nelle casse del Cirque un buco di bilancio di oltre 900 milioni di dollari in sole 12 settimane che ha costretto gli amministratori a chiedere la liquidazione per tentare di salvare la macchina da spettacolo più grande del mondo.
44 spettacoli tra resident e in tour costante sotto il grande chapiteau che era simbolo di 90 minuti di magia acrobatica, poesia, musica, una lingua inventata per cantare e farsi comprendere in ogni paese del mondo, l’idioma del Cirque. 4600 persone circa licenziate da un giorno all’altro, i riflettori spenti, le piste vuote. E per fortuna, il Cirque aveva operato la prima meravigliosa magia, abolendo dai suoi spettacoli tutti gli animali. L’uomo rischiava e si esibiva ogni sera, sfidando la gravità, la potenza della forza centrifuga, inventandosi un modo per volare o immergersi in acqua trasformando la materia in fantasia.
Il Cirque stava forse già pagando in parte l’addio alcuni anni fa del suo fondatore, ma ogni suo nuovo show (dal teatro costruito apposta nella foresta Maya in Messico a quello sulle navi da crociera) era un evento. I colori, le maschere, le atmosfere, quel ciclico tornare bambini seguendo storie fantastiche lo aveva reso unico e, come un Titanic delle scene, apparentemente inaffondabile. E invece, l’iceberg COVID miete un’altra vittima. Altrettanto tragicamente. E ci offre un motivo in più per odiarlo, se mai non ne avessimo avuti abbastanza.

La vita umana è fragile, scompare in un soffio o nell’assenza del soffio e del respiro. La vita culturale muore quando si perdono autori e compagnie capaci di trasformare le idee in un momento di distacco controllato dal presente, di riflessione multietnica com’era il Cirque, animato da lingue di tutto il mondo, da giocolieri, attori, maestranze, tecnici preparatissimi, tra i migliori del pianeta. Quest’anno a Las Vegas, avremmo dovuto reincontrarli durante IPW, rimandato per la pandemia al 2021. E invece adesso viviamo un nuovo dolore: quello dell’attesa e della possibilità di un addio invece che di un arrivederci. E allora non riesco a credere che il mondo degli eventi che a Las Vegas ha una delle sue case, con teatri e centri convention internazionali meravigliosi, possa far a meno dell’Allegria del Sole che ride. E quindi oggi più che mai, è il momento di cantare “Alegría; Come un lampo di vita, Come la rabbia di amare, Come un assalto di gioia”. E’ il momento di sperare in un rapido ritorno alle scene di quel caleidoscopio colorato che azzerava le differenze di pelle più di tanti movimenti alla Black Lives Matter e univa bianchi e neri, gialli e rossi; perché il Cirque era uno scatolone colorato che sotto il tendone o dentro a una piscina offriva casa a etnie differenti capaci solo di contare uno sull’altro per darsi sicurezza, per aiutarsi, per creare numeri sempre oltre il limite umano.

In quella canzone il guitto di strada cantava “ricordo i tempi del circo, si era tutti giganti, anche i bambini, i nani e gli uomini volanti perché dentro al circo sotto al tendone c’è posto per tutti e ognuno ha una ragione; e fuori di pista, quando le luci son spente, ti manca tanto di tutto ti manca la tua gente”. A noi manca già il Cirque, ed è quella malinconia carogna che ti taglia la gola e ti fa salire una lacrima nell’angolo dell’occhio. Come ai clown. Alegria.