Rilassato sotto un albero mi trovo a ripensare al nesso fra il nespolo e l’identità culturale della cucina italiana. Il Nespolo, perché è proprio l’albero sotto il quale mi rilasso. Ma siamo poi così certi che tutto quello che marchiamo “made in Italy” sia stato inventato dai nostri avi? O forse ci sarebbe da rivedere alcune certezze che poi così certe non sono. 2021 anno di riflessione a proposito… dell’identità gastronomica italiana!
Amo i primi pomeriggi d’esordio primaverile. Mi riparo dal sole sotto un nespolo leggendo l’ennesimo libro sulla cucina italiana. Ho letto di contese paternità regionali di famose ricette e di alimenti che, anche dopo secoli, non trovano una certificata collocazione storica e culturale; continuo a leggere di cuochi e gastronomi che garantiscono l’origine tutta italiana di molti prodotti, battendosi per proteggerne l’identità geografica. Le ricette di base: sempre le stesse. Certo, a volte, audaci cuochi azzeccano “nuovi” accostamenti di “non nuovi” alimenti ma, alla base, riscontro sempre una sorta di tentativo di sviluppo senza progresso. Penso a come potrebbe progredire la cucina italiana e guardo il nespolo, originario dell’Asia Minore. Penso che quasi in ogni giardino e orto italiano, questa magnifica pianta ha attecchito da secoli fino ad acquisire il “passaporto” italiano, così come il caco, il pero e molte altre piante arrivate nel Bel Paese grazie ai viaggi di impavidi conquistadores, appellativo che di certo non avvalla italianità.

Eppure, noi italiani siamo idealmente riusciti, nei secoli, ad arrogarci la paternità di ogni prodotto che sia arrivato sulle nostre coste o che abbia attraversato le Alpi dopo mesi, a volte anni, di viaggio. Spesso, abbiamo guardato a questi cibi con diffidenza e abbiamo atteso addirittura anni prima di assaggiarli, come nel caso del pomodoro, dal quale abbiamo ricavato la salsa “italiana” più famosa in tutto il mondo; offuscando il primato degli Aztechi e dandole il nome di pummarola, l’abbiamo accostata agli “itriyah” arabi che venivano prodotti a Trabia, in provincia di Palermo, ben da prima che Marco Polo portasse gli spaghetti dalla Cina; l’abbiamo poi ben distribuita sulla pita babilonese nata 4500 anni fa e, con un minimo sforzo letterario, sostituendo due consonanti, abbiamo creato la pizza. Anche la faraona, piatto della tradizione di molte regioni, viene dall’Egitto e selvaggina e pescato volano e nuotano senza confini.
Perché allora parliamo di identità culturale gastronomica italiana?
Rifletto su quanto sia stretto il rapporto tra identità e cultura: l’identità è ciò che fa di noi quello che siamo; la cultura è tutto ciò che abbiamo interiorizzato; la cultura è quello che viene socialmente determinato e modellato per formare pacchetti coerenti di segni e di simboli, come il cibo, appunto.
Ma qual è il gruppo culturale attorno al quale noi italiani abbiamo costruito la nostra identità gastronomica?
Credo, innanzitutto, che non si possa parlare di un’unica cucina italiana, bensì di un insieme di identità regionali e territoriali diverse. In Italia, la pasta ripiena cambia per forma e gusto non solo dal Piemonte alla Sicilia ma anche solo rimanendo nella Pianura Padana.

Con la loro capacità ed inventiva, le devote massaie italiane, oltre che cucinare per sfamare i loro cari, cercavano di rendere piacevoli al palato pranzi, cene e merende dando vita a piatti che hanno creato la cultura del cibo italiano. Le madri delle nostre madri cucinavano per esprimere i loro stati d’animo, influenzate da vicissitudini e da storie diverse; cucinavano usando, inconsapevolmente, prodotti provenienti da ogni parte d’Italia e del mondo e li assemblavano con amore e passione, ognuna in modo diverso; cucinavano rispettando quanto loro tramandato da generazione a generazione all’interno della loro regione, del loro territorio; cucinavano per trasmettere la loro cultura territoriale che, “mangiata” dai loro mariti, dai loro figli e dai figli dei loro figli è arrivata fino ai giorni nostri tramutandosi in identità.

Se l’identità sta nella preparazione, il cibo diventa cultura quando si consuma; un’identità gastronomica, quella italiana, che pur essendo crogiolo di innumerevoli culture ha maturato una solida e forte personalità. Dietro la preparazione di ogni piatto, da sempre, ci sono infiniti significati: voglia di creare, di comunicare, di soddisfare, di allietare, di consolare e di amare. L’identità culturale di ogni cucina, non solo quella italiana, non sta, quindi, tanto negli alimenti quanto nella trasformazione degli stessi. Poco importa se il pomodoro viene dalle Americhe e le nespole dall’Asia: quel che conta è l’unione tra tecniche di preparazione e materie prime. Il cibo diventa cultura una volta che è stato preparato, perché ogni civiltà si esprime con quello che produce e quello che viene prodotto è frutto di conoscenza, ricerca, studio e passione.

Non sono, quindi, i prodotti bensì le ricette, con gli accostamenti di alimenti arrivati da tutto il mondo che, grazie alla nostra creatività e gusto, possono rivendicare la loro profonda identità culturale italiana continuando a far identificare, nel mondo, l’Italia come il paese delle estasi culinarie.
Chiudo il libro e ripenso al nespolo: è una pianta con radici poco profonde che si distribuiscono principalmente in superficie e che, trovando terreno fertile, possono correre, diramandosi, arrivando molto lontano dall’albero: un po’ come i nostri cibi che corrono da regione a regione, da territorio a territorio a volte attraverso percorsi imprevedibili, contaminandosi e contaminando, senza mai rimanere uguali; dopotutto che cos’è la cultura se non la conoscenza delle diversità?