Cambogia, la terra dei Khmer. É appena sorto il sole a Phnom Penh e la pioggia incessante della notte ha lasciato il posto ad un caldo sole che spunta tra le nuvole. L’aria è umida.
Più che per il caldo, sudo per l’emozione e la preoccupazione che quello che intendo chiedere a Mr. Mei sia troppo banale o addirittura offensivo.
La stagione delle piogge è terminata e gli abitanti della Cambogia si preparano ad accogliere il caldo intenso e i numerosi turisti che vengono a trascorrere quaggiù lunghe vacanze all’insegna di birra economica e facili rapporti intimi elargiti a buon prezzo per necessità economica o per miserabile consolazione di chi si offre.
Mi accompagna Chum, un ragazzo di 30 anni che a causa della pessima qualità della vita sopportata nel suo paese, sulle palafitte delle risaie, prima di arrivare in città due anni fa, ne dimostra 50.
Ha lasciato che l’acqua delle risaie sulla quale era nato gli accarezzasse i piedi l’ultima volta, prima di salire sulla sua vecchia moto per attraversare il Paese e raggiungere Phnom Penh cercando una vita migliore.
Mi dice che in Cambogia la speranza di vita media è di 60 anni e che più della metà della popolazione è disoccupata. Mi dice che emigrare verso l’Occidente, in Cambogia, non è un fenomeno che contemplano. Per loro, o almeno per lui, emigrare vuol dire lasciare la propria cultura e tutto quello per cui i suoi “fratelli” hanno lottato.
Anche i suoi nonni avevano lottato e la loro lotta li ha portati dritti verso la morte, nel campo di Tuol Sleng, dove sto andando per intervistare e presentare il libro autobiografico di Mr. Mei, Chum Mei, ultimo sopravvissuto al genocidio del 1978.
In fondo al cortile, all’ombra, è seduto Mr. Mei. Ha preparato cento copie del suo libro che spera di vendere non per arricchirsi, ma per beneficenza e per tenere viva la ‘Memoria’.
Gli stringo la mano. Mi sorride. Con la sua mano, morbida e fresca, mi trasmette una sorta di energia benefica e, al tempo stesso, carica di mestizia. Mi sento spiazzato. Quello che volevo chiedergli non lo ricordo più. Si avvicina uno dei pochi visitatori del “camp” e chiede di cosa parli il libro.
Mr. Mei gli dice che è la sua storia e dice il prezzo: pochi euro, al cambio.
Il libro io l’ho già letto: c’è scritto tutto quello che c’è da sapere. Allora gli chiedo se si ritenga fortunato ad esser sopravvissuto. Mi dice che il 28 ottobre di quell’anno tutto intorno a lui era all’improvviso cambiato. Anche le persone. Nulla era, e non sarebbe mai più potuto essere, la sua “casa”, la sua famiglia.
In un istante era come se fossero cambiati etnia, usi e costumi, religione.
Era immensamente solo; quello che udiva erano solo suoni estranei, mancavano le voci della sua famiglia, di sua moglie, dei suoi amici,
Si era ritrovato come in mezzo al deserto, insieme ad altri esseri umani, ma in quel momento di umano non c’era nulla. Aveva freddo anche se faceva caldo. Successe poi che qualcuno gli parlò in inglese mostrandogli una bandiera colorata e dicendogli che tra poco qualcuno sarebbe venuto a prenderlo per aiutarlo.
Per un istante si accese di speranza, poi il suo sguardo e i suoi occhi si incupirono e rivisse il giorno in cui ha visto uccidere sua moglie. Non parlò; non disse nulla. Sapeva che qualsiasi cosa avesse detto non avrebbe potuto farlo tornare indietro. Sapeva che non avrebbero potuto aiutarlo a riavere la sua ‘vita’. Avrebbe voluto che quelle voci fossero familiari e invece erano solo un mucchio di suoni che non capiva. Non capiva neanche perché non sarebbe potuto tornare a casa. Aiutarlo per andare dove? Per fare cosa?
Si ferma una turista francese molto giovane. Ci chiede perché fossimo là. Mr. Mei non capisce. Rispondo io alla ragazza: “Perché questo signore porta la Storia nel suo corpo”. Guarda la versione in inglese del libro e torna dal suo gruppo, senza salutare. Mr. Mei mi sorride.
Mi ricordo che devo fargli almeno un’altra domanda. “Mr. Mei”, gli dico “Cosa prova nel sentire le polemiche sui profughi che al giorno d’oggi si rifugiano in Europa per scappare da violenza, guerra e povertà?”

Mi dice che per lui è straziante e che pensa che nessuno sia in grado di capire la propria vita sinché non riuscirà a dar valore alla vita degli altri. Mi dice anche che la superficialità e l’indifferenza con le quali ci affacciamo ai dolori del mondo, descrivono quanto sia piccola la nostra umanità.
Dopo queste parole, non ho altro da chiedere.
L’intervista è finita. Ci abbracciamo e ci auguriamo pace e serenità.
Ritorno da Chum che mi aspetta fuori dal campo. Mi saluta da lontano sorridendo, mette in moto il Tuk-Tuk e partiamo…
Penso che, oltre a quelle parole, non serva aggiungere altro.