C’era un tempo in cui la stretta di mano bastava a sancire un accordo, una parola data, un “commitment”. Il valore della reputazione era la cosa principale, legato indissolubilmente all’onore. Come dicevano i romani, “Mala tempora currunt” e oggi, fra contratti, clausole, cavilli e mala gestione la reputazione è andata scemando, ma per alcuni conserva ancora un grande significato.
Parliamo della reputazione delle nazioni. L’Islanda è il Paese in cui le imprese hanno la migliore reputazione al mondo, secondo l’analisi realizzata da Zwan, azienda specializzata in corporate reputation, attraverso il “Reputation Rating”, un algoritmo che ne pesa e misura le dimensioni, certificando una serie di parametri oggettivi e soggettivi, attraverso la tecnologia blockchain.
L’etica nordica è nota, infatti nella classifica seguono Norvegia e Svezia, per poi arrivare alla Nuova Zelanda e Svizzera, il primo quintetto dei 35 principali Paesi analizzati. Interessante notare che 4 dei primi 5 appartengono al Vecchio Continente.
Nella speciale classifica la Gran Bretagna si posiziona al XII posto, mentre gli Stati Uniti devono “accontentarsi” del XXI. Ma fra i fanalini di coda appare il nostro Paese, solo in XXXII posizione, al quart’ ultimo posto della classifica. Che tristezza!

Non risultano particolarmente sorprendenti le altre prime posizioni, che dopo il “quintetto” sono occupate da altre nazioni giudicate “virtuose”, note per l’alta innovazione e qualità della vita: Finlandia, Danimarca, Germania, Olanda, Canada.
Lo studio, che prende in esame il triennio 2017-2020, ha analizzato i differenti aspetti che compongono la “reputazione”, non unicamente intesa come brand recognition, ma anche incrociando alcune tra le fondamentali caratteristiche che incidono sulla reputazione delle imprese a livello globale.
Parametri come qualità della vita in azienda, dell’ambiente lavorativo, del bilanciamento fra i sessi, integrazione razziale e religiosa, sicurezza sul lavoro, sicurezza cibernetica, qualità percepita dell’oggetto aziendale (prodotto) “Made-in” ed altro.
Reputation Rating è un progetto indipendente e super partes fanno sapere da Zwan, brevettato, che ha permesso di incrociare certificati pubblici e ricerche statistiche ufficiali (Bloomberg, Ocse, Oecd, ILO, …).
L’Italia, purtroppo, è risultata essere quasi fanalino di coda al 32° posto, registrando performance negative in gestione delle carriere, stipendi medi e gestione delle diversità, fattori di grande penalizzazione.
Unica consolazione che, tra i parametri positivi, sembra esserci la percezione della qualità dei prodotti Made-in Italy, che vede l’Italia al VII posto tra i 35 analizzati, ma solo per quell’aspetto.
La qualità dell’ambiente di lavoro, dove l’Italia ricopre il XXVIII posto è un neo gigante.
Non è che altri siano messi meglio…per esempio stupisce la posizione (21) degli USA, principalmente imputabile al “gender gap” e al rapporto lavoro vita, che hanno trascinato verso il basso la valutazione, inficiando parecchi giudizi positivi in altri parametri.
La morale? Le imprese devono adeguarsi a nuovi criteri di sviluppo che vedono la reputazione come imprescindibile asset del Terzo Millennio. Per conseguire un profitto a lungo termine si deve guardare non solo al conto economico, ma tenere comportamenti sostenibili ed accettabili. E’ il caso di impiantare regole più severe affinché anche il nostro paese si adegui presto agli standard delle altre potenze mondiali”.