Finale di Masterchef 7. Esce Alberto a un passo dall’ultimo duello per il titolo. E subito si scatena la rete. “Ben gli sta; è un presuntuoso, è uno che credeva di aver già vinto; è uno con l’aria da saccente; è uno che propone cose per far vedere quanto è bravo” (perché? Uno cosa dovrebbe fare? Andare a Masterchef per dimostrare che non sa fare neppure le uova al padellino?) e via di questo passo su twitter e altri social. Non sono uno starchef per cui non giudico la bontà o meno dei suoi piatti, come di quelli di Kateryna che piangendo alla fine diceva “io volevo vincere”, com’è giusto che sia. Perché non si va in gara per esserci e mostrare il look; in una gara si va per vincere. Con buona pace di Pierre de Coubertin. Invece i nuovi format TV paiono una copia della “Morfologia della Fiaba” di Propp, che studia le favole di magia e trova azioni e personaggi comuni in tutte. E ormai il programma TV è, a tutti gli effetti, una fiaba con molto di magico. Nei sempre più grandi schermi televisivi impazzano trasmissioni che promettono soldi fama e successo attraverso il miracolo. E ripropongono lo schema dell’eroe buono, un po’ sfigato, che passa una serie di sventure ma poi alla fine vince. Così possiamo identificarci tutti con lui. E’ facile, senza sforzo. Il successo dipende da un colpo di fortuna. La meritocrazia sta da un’altra parte, non fa spettacolo. D’altro canto Briatore, uno che qualcosa pare averlo capito di come si costruiscono squadre e aziende di successo, già tempo fa aveva detto che l’Italia è un popolo di invidiosi e rancorosi verso chi ha i soldi. Chi ha successo o ha venduto l’anima al diavolo o ha fatto i soldi in modo illecito. La bravura, l’intuizione, la capacità di perseguire un obiettivo, pare non venga presa in considerazione.
A differenza dell’America, dove il successo è un pregio, dove la volontà di emergere è una virtù, dove l’impegno e la passione per il proprio lavoro, il proprio sogno, sono quasi un mantra quotidiano, in Italia voler vincere è segno di arroganza, di prepotenza. Esiste la sindrome di San Francesco, con la sua humilitas; solo che invece di vivere tra boschi e lupi (forse perché stanno scomparendo entrambi), l’Italia vive in uno stato di “vorrei ma non posso”, ma neppure mi impegno per ottenerlo, perché tanto non ci arrivo. In fondo il perdente cerca una scusa, il vincente una strada. E così trionfano le trasmissioni che ci danno una imbarazzante mission: sii mediocre e aspetta il miracolo. Quello che ti cambierà la vita non attraverso i tuoi sogni da realizzare, il tuo impegno costante, la ricerca spasmodica del modo per fare ciò che vuoi; ma attraverso l’aiutante magico, che se sei umile, arriverà prima o poi.
MasterChef così come altri programmi, è stato così. Si parte dall’allontanamento. Da casa, per vivere isolato nel loft con altri, subendo insidie e tranelli. Nel caso di Simone è stato facile; viveva già non per sua colpa, solo con un cane. Però è il povero di buona famiglia, senza affetti, da curare; ci si immedesima facilmente. E infatti trova alleati anche in trasmissione, la mamma cougar Denise che se lo mangia con gli occhi e che lui (in)volontariamente? danneggia e manda fuori trasmissione salvo poi pentirsi e ricevere il perdono e l’aiuto magico; nella trasmissione, come nella fiaba, il nuovo eroe supera prove, sfide dirette con il cattivo di turno. E nell’ultima fase si trasfigura, ha un nuovo piglio, svela il suo potenziale e vince. Manca il matrimonio e vissero tutti felici e contenti al castello perché con 100.000 euro di premio e la promessa di scrivere un libro di ricette oggi ti comperi poco più che un box auto e soprattutto la bella Kateryna, se potesse, uno come Simone lo mangia in pastella. E come in ogni fiaba, il processo è lungo; prima c’è quasi un fallimento, poi il riscatto e infine il buon esito e l’obiettivo raggiunto.
Nei commenti social contro chi dichiarava apertamente di voler vincere, ho visto una triste fotografia della nostra nazione, alla ricerca di sussidi, di sostegni esterni, di alibi. Dallo sport (non andiamo al mondiale per colpa degli arbitri, dei sorteggi sfortunati, di ingiustizie in campo, di pastette etc.) all’imprenditoria (non abbiamo start up perché mancano i soldi pubblici per finanziarle che credo sia un attimo un concetto contrario a quello di imprenditore, perché nessuno crede nei giovani …mentre invece Apple e Steve Jobs sono stati finanziati dal governo americano vero?) a tutti i campi.
Vince un’immagine triste, quella della mediocritas da premiare per non far arrabbiare nessuno. Quella del piangino, del bambino in castigo che però trova il riscatto grazie a qualcosa di esterno (la trasmissione televisiva).
D’altro canto già Umberto Eco aveva tracciato un sublime ritratto di questo fenomeno, analizzando il successo di Mike Bongiorno. Ecco, parafrasando le sue parole nel Diario Minimo, Simone e altri vincitori di format televisivi, sono l’esempio della massificazione mentale quale prodotto del consumismo televisivo e della mediocrità dei modelli cui gli spettatori vengono costantemente blanditi a uniformarsi: “…Ora, nel campo dei fenomeni quantitativi, la media rappresenta appunto un termine di mezzo, e per chi non vi si è ancora uniformato, essa rappresenta un traguardo. … Invece, nel campo dei fenomeni qualitativi, il livellamento alla media corrisponde al livellamento a zero. Un uomo che possieda tutte le virtù morali e intellettuali in grado medio si trova immediatamente a un livello minimale di evoluzione. La medietà aristotelica è equilibrio nell’esercizio delle proprie passioni, retto dalla virtù discernitrice della prudenza; mentre nutrire passioni in grado medio e aver una media prudenza significa essere un povero campione di umanità”.
Simone, sempre come Mike per Eco, è uno dei casi più vistosi …di riduzione del superman all’ everyman “… deve il suo successo al fatto che in ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere traspare una mediocrità assoluta unita (questa è l’unica virtù che egli possiede in grado eccedente) ad un fascino immediato e spontaneo spiegabile col fatto che in lui non si avverte nessuna costruzione o finzione scenica …continuando con il suo non vergognarsi “di essere ignorante” …col suo rispetto per tutti i miti (e le convenzioni) della società in cui vive … col suo basic italian che riesce quasi a rendere invisibile la dimensione sintassi.”
Sia chiaro, non ce l’ho con Simone di cui invidio la capacità di trasformare un pezzo di carne o un’insalata di porri in qualcosa di sublime per il palato. Rifletto sul personaggio che incarna, sui motivi che spingono il popolo delle rete a impazzire per lui e osannarlo per la sua bontà e umanità da perdente sfigato che invece vince perché la fiaba deve avere un lieto fine, rispetto a chi dichiara la sua volontà di emergere ed è invece punito per la sua Hybris. Ecco; non credo che sia un esempio. Tutto qui. Preferirei che finalmente si facessero programmi in cui si trasmettesse il valore dei sogni da perseguire e realizzare ad ogni costo, del successo come qualcosa cui ambire con giusti mezzi e con impegno, invece che come qualcosa da disprezzare perché frutto di arroganza e mercimonio.